VERONA – Una messa in scena da Oscar fa da controparte a un cast di spessore, ottima la direzione e l’orchestra per questa versione di Tosca di Puccini andata in scena per la seconda serata ieri nell’anfiteatro romano, con la magistrale regia, le superbe scene, i colori e i magnifici costumi di Hugo de Ana. Un allestimento creato nel 2006 che a distanza di un decennio continua ad essere non solo attuale, ma difficilmente superabile. Peccato la pioggia a dieci minuti dal finale.
Una lettura dell’opera intelligente e sicuramente attenta quella che Hugo de Ana ha fatto per questa ammirevole Tosca. Un allestimento carico di simboli in grado sia di catturare l’attenzione dello spettatore – viste le iper realistiche dimensioni degli oggetti sul palco – che di agevolarlo nel comprendere bene il quadro storico. È il 14 Giugno del 1800, siamo in una Roma papalina dove il potere forte viene rivelato simbolicamente sin da subito. Il primo atto si svolge all’interno della chiesa di Sant’Andrea della Valle, non distante da Castel Sant’Angelo, rappresentato dall’enorme busto di Michele arcangelo che campeggia per tutta la durata dell’opera sul palcoscenico.
Il volto della statua, dapprima coperta da un drappo nero, lascia ben vedere la spada che posta in obliquo farebbe quasi pensare a una croce. A destra un enorme pugno con un anello pastorale al dito racchiude con forza un rosario: la religione al potere. Un grande crocifisso posto in piedi e il gioco è fatto, la croce e la spada chiariscono ogni dubbio. Più avanti, collocati ai lati del palcoscenico, si scorgono cannoni e pezzi di artiglieria a rammentare che quello in cui avvengono i fatti è lo stesso giorno della battaglia di Marengo.
Sullo sfondo un’impalcatura metallica rugginosa, posta in obliquo, che aprendosi farà intravedere in simultanea situazioni che stanno avvenendo altrove, mentre l’azione primaria è in primo piano sulla scena. Scelte filmiche espresse anche da alcuni riferimenti anaforici che vedremo meglio in seguito.
Una grande riproduzione del “Noli me tangere” di Correggio diventa quasi un commento speculare a ciò che sta accadendo in scena. La Maddalena del dipinto, il cui abito ricorda un’iconografica Santa Cecilia, patrona dei musicisti, è vestita di giallo e lo stesso colore viene indossato da Tosca nel primo atto. Non è casuale questo dualismo Tosca-Maddalena né quel colore, simbolo anche della gelosia di Tosca.
I protagonisti principali sono tre: il tenore, Mario Cavaradossi, un artista di inclinazioni liberali aristocratico e “volterriano”, stando alle parole di Scarpia. Il soprano, Floria Tosca, la cantante lirica nonché diva del momento, donna gelosa, innamorata di Cavaradossi ma al tempo stesso pia e devota, una donna dalla personalità ricca di contrasti. Il baritono, il barone Scarpia, capo della polizia pontificia, uomo corrotto, crudele e di grande potere, invaghito di Tosca. Angelotti, un prigioniero politico evaso da Castel Sant’Angelo, sarà la causa involontaria della tragedia e della sua stessa morte.
Opera straordinaria, capace di catturare lo spettatore per tutta la sua durata, “Tosca” è di una bellezza assoluta. Una splendida musica accompagna un grande testo, non sempre questo accade nella lirica, talvolta la qualità dei testi è inferiore a quella delle partiture.
Scritta da Puccini nell’arco di alcuni anni, iniziata nel 1896 e terminata nel 1899, “Tosca” fu portata in scena il 14 gennaio del 1900. Puccini, benché poco masticasse il francese, era rimasto colpito dalla sfolgorante recitazione di Sarah Bernard, che in teatro a Milano nel 1889 rivestiva il ruolo della protagonista. Fu la recitazione certamente brillante della “divina” a convincere il maestro lucchese di tradurre in opera, quel dramma. Il libretto dell’opera venne affidato a Luigi Illica e Giuseppe Giacosa che lavorarono pesantemente sulla trama, alleggerendo diverse parti, fino a ridurre a tre il numero dei caratteri principali. Va anche detto che Illica non trovava la pièce di suo gradimento, riteneva piuttosto che il successo del dramma fosse imputabile alla superba interpretazione de “la Voix d’or”, così Victor Hugo definiva la Bernardt. Non è infatti casuale se alcune prassi dell’interpretazione dell’attrice francese finissero col far scuola grazie ad alcune sue peculiarità visive. La comunicativa gestuale della Bernardt, immortalata nelle fotografie della prima e fissata poi nell’iconografia del tempo, ha in seguito influenzato la mimica delle interpreti dell’opera lirica, divenendo così prassi canonica. Come dire: la prima impronta lascia sempre il segno.
Gli interpreti, ottimamente diretti, hanno dato prova di una padronanza scenica che unita a una regia attenta e accurata nelle scelte ha costituito un indispensabile compendio alla perfetta riuscita dello spettacolo. Belle le voci, belle le timbriche e i colori; i volumi però sono stati un po’ meno omogenei e sicuramente la serata, un po’ ventilata, e un’arena non troppo affollata non ha aiutato in quel senso.
Interessante la recitazione di Ambrogio Maestri (Scarpia) che si è dimostrato padrone della parte e di grande sicurezza in un ruolo che pare cucito addosso a lui. Grazie alla voce bellissima e importante di cui è dotato, unita a un grande volume, è entrato mirabilmente nel personaggio.
Ottima la recitazione dell’interprete principale Susanna Branchini, la sua Tosca toglie piacevolmente un po’ di spazio alla diva e alla donna per concentrare tutta l’attenzione sulla femmina. È quest’ultima che fa sua la presa dello spettatore. La diva viene accennata e messa da parte, anche attraverso particolari dell’abbigliamento come la mantiglia nera e regale che indossa entrando nella chiesa ma che poi nel momento di andarsene sostituisce a un bonnet giallo come l’abito. Tosca/Branchini ci appare innamorata, gelosa, passionale e disperata, ma l’ottima recitazione della cantante resta sempre dentro la misura, senza eccedere mai. Dotata di una voce morbida, rotonda e dal puntuale fraseggio ha raggiunto il suo zenith nella superba esecuzione di “Vissi d’arte”. Esecuzione nella quale l’artista si è dimostrata ancora una volta precisa, senza una sbavatura, né un’incertezza. Forse si tratta della sua “aria da baule”, sicuramente sarebbe da inserire in un’antologia.
Carlo Ventre ovvero Cavaradossi ha timbrica e un ottimo controllo dei fiati, forse non è apparso in perfetta forma la sera della recita. Il tenore uruguaiano pur avendo una bella voce, ha una resa poco idonea agli spazi aperti e malgrado l’ottima acustica dell’arena, è sicuramente in un un teatro al chiuso che si avrebbe modo di apprezzarla al meglio. È apparso, infatti, un po’ smorzato nel suo “Vittoria”. Ha però dato una buona prova in “Lucevan le stelle”, malgrado un finale un po’ troppo personalizzato.
Anche i protagonisti “minori” sono stati all’altezza del compito. Fra questi interessante soprattutto la recitazione di Nicola Ceriani nel ruolo del Sacrestano. L’orchestra dell’Arena di Verona, ottima come sempre, si è mostrata aderente alla partitura sia per colore che per timbro.
Ottima anche la direzione dal M.o Fogliani.
Forse in alcuni momenti il coro, solitamente ben guidato, ha ecceduto per sonorità soverchiando i tre protagonisti in alcuni punti chiave, come ad esempio durante il secondo atto, nel quale gli stessi si confrontano apertamente in uno snodo cruciale del dramma.
Resta fermo però come le scelte di regia abbiano contribuito davvero a firmare un autentico capolavoro, arricchendo di particolari la scena e adattando per il palcoscenico più grande del mondo, un’opera esemplare per realizzazione, fedele alle indicazioni testuali ma laddove ciò non fosse stato possibile – data la tipologia e il contesto teatrale – l’intelligenza scenica ha saputo sopperire, ben rispettando il punto di vista dello spettatore anche meno esperto che grazie ad esse ha sicuramente potuto seguire la vicenda comprendendo al meglio ogni passaggio.
(La presente recensione si riferisce allo spettacolo andato in scena Giovedì 10 Agosto 2017)
Repliche nelle sere del 17, 22, 25 agosto 2017, alle ore 20.45.
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