GOLDEN GLOBES — Si è svolta domenica 9 gennaio (in Italia nella notte tra il 9 e il 10), la celebre e una volta ambita cerimonia di premiazione della Hfpa che ogni anno apre la stagione cinematografica e anticipa gli Oscar. Quest’anno senza fanfare, giornalisti, diretta televisiva e tappeto rosso. E no, il motivo non è la pandemia.
Golden Globes 2022. Nessun tappeto rosso solcato da divi stellari, nessun fotografo, nessun ringraziamento commosso, nessuna lacrima, nessuna risata. La 79ª edizione sarà ricordata come un’evento inesistente, estraneo al suo stesso, effimero trionfo. Dopo la denuncia del Los Angeles Times, che ha accusato l’organizzazione della HFPA, l’Hollywood Foreign Press Association, di scarsa etica e di razzismo, i Golden Globes hanno cercato di fare ammenda ma è stato impossibile trovare un numero adeguato di sponsor per la diretta. La magra consolazione è che a trionfare, in questa surreale vicenda, sono state sia pellicole magnifiche — come da tradizione, più vicine agli Oscar — sia meritevoli serie televisive.
Le nomination, annunciate a dicembre dal presentatore Snoop Dogg, avevano privilegiato Belfast di Kenneth Branagh e The Power of the Dog di Jane Campion, testa a testa con sette candidature. Vediamo come è andata.
I premi per la categoria Cinema
Il potere del cane porta a casa — almeno virtualmente — i due globi d’oro che pesano più di tutti, quelli per il Miglior film drammatico e Miglior regia, e un terzo al Miglior attore non protagonista, Kodi Smit-McPhee. Un successo che era nell’aria anche all’ultimo Festival di Venezia, dove la regista neozelandese di Lezioni di piano ha abbracciato, commossa, il Leone d’argento per la migliore regia. L’epopea Western della Campion, dal potente simbolismo e una fotografia che travolge gli occhi, è un cinema d’autore che sorprende e spiazza come il suo magnifico protagonista, Benedict Cumberbatch.
A Steven Spielberg, invece, il premio per il miglior film musicale e quello per le due attrici Rachel Zegler e Ariane DuBoise. Non poteva essere altrimenti: West Side Story è Cinema all’ennesima potenza, al di là dei giudizi assai divisivi e da pretestuosi confronti con il suo celebre antenato. Un manuale di regia e di cinematografia che ha pochi eguali.
A Belfast di Kenneth Branagh va il premio per la Miglior Sceneggiatura. L’affresco autobiografico dell’attore prestato a Shakespeare, in un bianco e nero autoriale accompagnato dalla splendida canzone di Van Morrison (Down to Joy), ammalia per l’immersione fine anni ’60 nella capitale dell’Irlanda del nord, tra luci d’infanzia e l’ombra del conflitto religioso. Branagh deve cedere però musicalmente di fronte a Sua Maestà, o meglio, alla sua più illustre spia: No time to die, cantata da Billie Eilish, vince per la Miglior canzone originale, oscurando l’incantevole voce del più importante musicista irlandese. Il paniere dell’omonimo 007 di Cary Fukuniga, l’ultimo interpretato da Daniel Craig, non rimane così sguarnito.
Attori premiati, musica e qualche delusione
La perfetta macchina fantascientifica di Denis Villeneuve, Dune, nasconde la sua delusione accogliendo un solo premio, per la Miglior colonna sonora originale, composta dal mito Hans Zimmer. Si consolerà pensando ai copiosi guadagni: Dune è stato uno dei film più attesi e visti della passata stagione.
L’elenco degli attori premiati desta qualche perplessità, a partire dal Miglior attore protagonista, Will Smith per Una famiglia vincente – King Richard. Mister Smith sceglie nuovamente un ruolo di fatica, sacrificio e redenzione, sfumature già viste e che per questo faticano a regalare qualche sorpresa. Noi tifavamo per Benedict Cumberbatch. Peccato.
Allo stesso modo Nicole Kidman, Miglior attrice nei panni della spumeggiante star della televisione Lucille Ball in A proposito dei Ricardo, non decolla a causa di una sceneggiatura non impeccabile, che la obbliga a rimanere sopra le righe, non all’altezza delle sue indubbie qualità recitative. Numerose le polemiche sui social network, che aspettavano sul podio Lady Gaga (House of Gucci). Nonostante il fascino italoamericano e la cruda ed elegante drammaticità delle eleganti vesti Lady Gucci, la sua performance non sembra migliore della Kidman. Tutti felici, invece, per Andrew Garfield, Miglior attore in una commedia/musical. La scelta di diventare Jonathan Larson, drammaturgo di Rent, nell’adattamento cinematografico Tick,Tick… Boom! diretto da Lin-Manuel Miranda, ha dato i suoi frutti.
Se l’Italia si affligge per la vittoria mancata di Paolo Sorrentino e il suo È stata la mano di Dio, il mondo della settima arte gioisce per Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi, a cui va il meritatissimo premio per il Miglior film in lingua straniera. Tratto da un racconto breve di Haruki Murakami, Drive my car è un inno all’universo del linguaggio e del fertile intersecarsi di un discorso amoroso tra vita, cinema e teatro. Nonostante rivali di grandissimo livello — uno su tutti, Un eroe di Asghar Farhadi — Drive my car tocca corde emotive così universali che ci auguriamo di ritrovarlo nella cinquina degli Oscar.
Il dispiacere più grande va alla sconfitta di Luca, il toccante film d’animazione Made in Italy di Enrico Casarosa, che deve cedere il passo alla colorata macchina acchiappa-voti di Encanto. Delusione per Don’t Look up di Adam McKay: nessun premio per il film più visto e discusso del periodo natalizio. Un cast di grande richiamo e una sceneggiatura di grande impatto, tra critica sociologica e feroce satira ai Mass Media, non sono bastate per convincere la giuria dei Golden Globes.
I premi per la televisione
La stella di Succession, serie televisiva ideata da Jesse Armstrong (The thick of it), prodotta dall’attore Will Ferrell e dal regista Adam McKay, continua a brillare da oramai tre stagioni. Miglior serie drammatica, Miglior attore in una serie drammatica e Miglior attrice non protagonista in una serie drammatica: il numero tre porta fortuna. Il racconto di famiglia ricca e disfunzionale in un sontuoso interno, tra echi di Re Lear e tensioni da letteratura russa, corre sul filo di profonde caratterizzazioni psicologiche e tempi ironici di rara fattura. In Succession tutto funziona: la sceneggiatura, i dialoghi, le scenografie e, soprattutto, un cast sbalorditivo. Difficile capire chi è più bravo a far cosa, chi è il più debole, crudele o reietto. La tridimensionalità dei caratteri stupisce come, all’epoca, stupirono le sfaccettature umane di Tony Soprano.
Logan, Roman, Connor, Kendall e Shiv Roy, si fanno amare ed odiare allo stesso tempo, a corrente alternata ma non si dimenticano. Jeremy Strong (Kendall Roy) strappa il premio di Miglior attore a Brian Cox (Logan Roy), così come il figlio del piccolo schermo cerca di portare via l’azienda al padre. La volitiva acqua cheta Sarah Snook (Shiv Roy) è la Miglior attrice non protagonista, a sottolineare che i premi sono affari di famiglia.
Il resto, è un copione già scritto. Jason Sudeikis vince per l’acclamato Ted Lasso, Kate Winslet per il non indimenticabile Omicidio a Easttown, una serie drammatica piatta e senza pathos. Un solo premio al fenomeno serial del momento, Squid Game. Il miglior attore è il suo protagonista, Oh Yeong-su. Una scelta felice il premio a Michael Keaton per Dopesick – Dichiarazione di indipendenza, la miniserie a 8 episodi targata Hulu, sul lucroso commercio tutto americano di medicinali oppiacei.
Nessun premio a Maid, che meritava sicuramente di più, niente a The Morning Show, grazie al cielo. Dopo una prima stagione assai promettente, la seconda è un disastro. Nonostante le nomination, nessun premio nemmeno a Only murders in the building. Eppure è una delle serie più divertenti e raffinate degli ultimi anni. Prodotta da Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez, che ne sono anche i principali interpreti, esplora con un linguaggio inconsueto la sottile linea che separa dramma, commedia e crime. Da non perdere il settimo episodio (Il ragazzo della 6b) girato interamente senza dialoghi e da un solo punto di vista.
L’incerto futuro dei Golden Globes
Che dire infine dei Golden Globes? L’orizzonte appare quantomeno irto di ostacoli, anche alla luce delle critiche unanimi degli addetti ai lavori, che avrebbero preferito una più dignitosa pausa. Lo scorso maggio l’emittente statunitense NBC aveva annunciato di non voler mandare in onda la cerimonia, auspicando ai Globes di prendersi del tempo per risolvere i problemi interni. Molte le star che pubblicamente hanno condannato, a vario titolo, l’Hollywood Foreign Press Association.
Tom Cruise non solo ha protestato ma ha agito, restituendo i premi a lui assegnati nel corso degli anni. Questi campanelli d’allarme non hanno frenato gli organizzatori, che hanno scelto di scandire le tappe della cerimonia dai propri profili social, con risultati ben diversi da quelli auspicati. L’account Twitter ufficiale dei Golden Globes ha partorito commenti bizzarri e spesso ambigui fino all’ilarità per annunciare i vincitori delle varie categorie. Pochi sono stati i ringraziamenti dei vincitori: in molti hanno scelto un dignitoso e forse più diplomatico silenzio.
Arriverà davvero un cambiamento generazionale e di mentalità? Qualunque sia la risposta, vero è che per il momento la mecca del cinema li ha abbandonato al loro destino.